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sabato 12 maggio 2012

La divina arte del sapersi accontentare

Thomas Watson, uno dei principali teologi puritani inglesi del XVII secolo, scrive nel  1672: "La divina arte del sapersi accontentare" (The Art of Divine Contentment). E' un libro di 237 pagine che insegnava ai cristiani di una generazione in gravi difficoltà economiche a come reagire non solo con dignità e dirittura spirituale ("in modo degno della vocazione che abbiamo ricevuto"), ma anche in modo creativo. E' una lezione quanto mai importante che pure noi dovremmo imparare. Vi riporto qui, nella mia traduzione italiana, la prima parte del primo capitolo. Dio volendo, ve lo proporrò gradualmente in questo blog.
La divina arte del sapersi accontentare 
“Non lo dico perché mi trovi nel bisogno, poiché io ho imparato ad accontentarmi dello stato in cui mi trovo” (Filippesi 4:11). 
Queste parole sono introdotte in forma di prolessi[1] per anticipare o prevenire un’obiezione. Nei versetti precedenti l’Apostolo si era espresso con molte e celesti esortazioni, fra le quali quella di non stare in ansia per cosa alcuna[2]. Con questo egli non intende escludere che: (1) noi non si debba essere solleciti nel lavorare diligentemente per provvedere ai bisogni nostri e della nostra famiglia[3], difatti: “Se uno non provvede ai suoi, e in primo luogo a quelli di casa sua, ha rinnegato la fede, ed è peggiore di un incredulo”[4]; e nemmeno che (2) noi non si debba essere solleciti nell’impegnarci altrettanto diligemente per rendere sicura la nostra vocazione ed elezione[5]; ma egli intende che (3) non dobbiamo avere “ansiose sollecitudini”, preoccupazioni eccessive per gli esiti e gli avvenimenti, di “come le cose andranno a finire” le cose: “Non siate dunque con ansietà solleciti, dicendo: Che mangeremo? che berremo? o di che ci vestiremo?” [6]. E’ in questo senso che un cristiano deve aver cura di non stare in ansia per cosa alcuna. Il termine greco originale che traduciamo con “stare in ansia”[7] deriva da una radice che letteralmente significa “tagliare il cuore in pezzi”, una sollecitudine, un’ansia, una preoccupazione che “ci taglia l’anima a fettine”. Facciamo molta attenzione a questo. Ci viene comandato di “rimettere la nostra sorte nel Signore”[8], di confidare in Lui. La parola che traduciamo qui con “rimettere” in ebraico letteralmente significa “srotolare” come chi srotola un tappeto davanti a qualcuno, nel nostro caso di fronte al Signore. E’ compito nostro quello di deporre di fronte al Signore le nostre cure, la nostra ansietà, ed è compito di Dio quello di prendersene cura. Con le nostre eccessive preoccupazioni, le nostre sollecite cure, tendiamo, infatti, ad esagerare e strappiamo dalle mani del Signore quello di cui Lui ha promesso di occuparsi. 
La preoccupazione, quando è eccentrica, squilibrata, quando tradisce mancanza di fiducia in Dio oppure quando è paralizzante, è molto disonorevole verso Dio. Nega infatti la Sua provvidenza, come se Egli sedesse in cielo senza minimamente curarsi delle cose quaggiù, come un uomo che fa un orologio e poi lo lascia andare da sé stesso. Le preoccupazioni smodate distolgono il cuore dalle cose migliori; e di solito, mentre pensiamo a come faremo per vivere, ci dimentichiamo di come morire (in grazia di Dio). 
Le preoccupazioni eccessive sono come un cancro spirituale che ci consuma e ci toglie ogni vigore. Con tutte le nostre preoccupazioni se noi non possiamo aggiungere un’ora alla nostra vita[9], sicuramente aggiungiamo anni alle nostre afflizioni. Dio stesso la minaccia come se fosse una maledizione: “Mangeranno il loro pane con ansietà”[10]. Meglio digiunare che mangiare di un tale pane! ! 
“Non siate in ansia per cosa alcuna”. 
Ora, affinché nessuno dica, “Sì, sì, Paolo, tu predichi a noi quello che a malapena hai imparato tu. Hai tu imparato a non stare in ansia?”. L’apostolo sembra tacitamente rispondere a tale obiezione nelle parole del testo: “io ho imparato ad accontentarmi dello stato in cui mi trovo”. Questo parlare sarebbe degno di essere in lettere nell’oro delle corone e dei diademi dei principi. [Continua, 1].


[1] La prolessi (dal greco πρόληψις, derivato da προλαμβάνω, «prendo prima») è una figura retorica di tipo sintattico che consiste nell'anticipazione di una parte della proposizione o del periodo che nella costruzione normale andrebbe dopo, per mettere in evidenza un concetto o una parola
[2] “Non angustiatevi di nulla” (4:6).
[3] L’autore la chiama sollecitudine provvidenziale, quella di chi provvede.
[4] 1 Timoteo 5:8.
[5] L’autore la chiama: sollecitudine religiosa, cfr, 2 Pietro 1:10.
[6] Matteo 6:31.
[7] μεριμνᾶτε (merimnate).
[8] Salmo 37:5.
[9] “E chi di voi può con la sua preoccupazione aggiungere un'ora sola alla durata della sua vita?” (Matteo 6:27).
[10] Ezechiele 12:19 Diodati.


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