Riporto qui una riflessione di Marco Politi.
"Poco più di centocinquanta anni è durata la macchina per scrivere. Da quando un novarese, Giuseppe Ravizza, l’aveva pensata e realizzata per aiutare la scrittura dei non vedenti. Adesso la sua invenzione, contestata da un altro creatore americano, si è estinta. L’ultima fabbrica, localizzata in India, chiude: non ci sono più ordini.
Tutti, o quasi tutti, oggi scrivono con il computer. Oppure a mano, con la penna o la matita, dal momento che l’unico vero concorrente della videoscrittura è il quaderno, o piuttosto il moleskine. Il mondo meccanico viaggia verso l’esaurimento. L’immaterialità ha avuto la meglio. Ma cosa ci abbiamo guadagnato con la fine della tastiera meccanica? Di sicuro ora si fa meno fatica. Chi ha avuto modo di imparare a scrivere sulle macchine tradizionali - spesso con solo due dita - sa quanta energia occorresse per battere sui tasti, per sollevare il carrello, per imprimere le maiuscole, per dare alla riga un ritmo accettabile. La scrittura mentale seguiva, almeno inizialmente, il ritmo dei colpi dei polpastrelli sui tasti, e la fine della riga, vera unità di misura, era raggiunta da un suono: Dling! Si andava a capo, e si ripartiva con il filo dei pensieri. Ma c’erano gli errori da correggere: a mano, o ribattendo tra una riga e l’altra, oppure ricorrendo alla gomma da cancellare, ai fogli del correttore Pelikan, e da ultimo al «bianchetto». Una vera battaglia campale, combattuta sui fogli A4, contro i tasti amici e nemici a un tempo, dal dattilografo, sia esso sconosciuto impiegato o invece celebre scrittore. La macchina per scrivere è stato il principale strumento di comunicazione in un’epoca che, almeno per l’Italia, in letteratura va da Pirandello a Pier Paolo Pasolini.
Lo scrittore siciliano componeva ancora a mano i suoi testi, poi li dattilografava con la macchina. Il poeta e cineasta in una celebre foto di Dino Pedriali appare chino sui fogli, a fianco della sua fedele Lettera 22. Si può dire che l’immagine dello scrittore, oltre a quella del reporter e del giornalista, sia legata alla presenza dello strumento meccanico, cui corrispondeva nella fabbrica di carta degli uffici la schiera delle dattilografe, schiave della tastiera, che battevano a ritmo frenetico: catena di montaggio di fogli e documenti che hanno riempito gli archivi prima di sperdersi nel vento, o più spesso nelle discariche. Il computer al contrario è leggero e silenzioso. Il foglio di carta immaginario che si apre davanti allo scrivente è pressoché infinito, senza inizio senza fine.
La prosa scritta a mano è senza dubbio differente da quella ottenuta a macchina, e questa, a sua volta, diversa da quella elaborata con il personal. La prima avanza al ritmo del polso e delle dita, che descrivono sul foglio cerchi e linee arcuate, seguendo il mondo delle cicloidi, proprio della scrittura occidentale: pensieri sinuosi, arzigogolati, svolazzanti. La scrittura meccanica, impressa dai muscoli delle braccia sui tasti, si produce invece a scatti, dura e pura come il suo ritmo: lettera dopo lettera, parola dopo parola, la frase si compone tra assemblaggi forzati e spaziature necessarie. La scrittura con il computer, al contrario, appare decisamente magica: pura apparizione di lettere. L’immaterialità della videoscrittura è tuttavia a metà strada tra le due. Possiede due nature in una sola: appare dal fondo bianco senza sforzo, ma è pur sempre composta di «caratteri». Per questo i pensieri somigliano a lampi nel buio, meglio nel bianco del foglio virtuale. Si vola, senza fatica e senza resistenza, per pagine e pagine. Se le vecchie macchine per scrivere hanno salvato gli uomini e le donne dall’incombente mondo delle turbe grafiche (tremolio, atarassia, pause, corea), evitandoci l’esperienza dell’agitazione e del turbamento in agguato nella scrittura a mano, che non a caso i grafologi erano in grado di leggere come un fondo oscuro, sfiorando i tasti del personal computer, touch, noi ora sembriamo privi di spessore. Come le lettere che raduniamo sul visore, noi scriventi siamo puri effetti di superficie. È probabile che con le macchina per scrivere si estingua ciò che in noi è profondo: l’inconscio.
Dopo il personal ci attende la telepatia: puro pensiero senza più mediazioni materiche. Scrivere e pensare coincideranno. La profondità sarà inabissata nella superficie, e la mente simile a un foglio. Noi stessi solo un foglio che si distende nel tempo e nello spazio. Seppur a termine."
Chiude in India l'ultima fabbrica di “typewriter”: ora tutti usano il computer di Marco Belpoliti (da "La Stampa" del 27 aprile 2011)
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