"12 Poiché noi non abbiamo il coraggio di classificarci o confrontarci con certuni che si raccomandano da sé; i quali però, misurandosi secondo la loro propria misura e paragonandosi tra di loro stessi, mancano d'intelligenza. 13 Noi, invece, non ci vanteremo oltre misura, ma entro la misura del campo di attività di cui Dio ci ha segnato i limiti, dandoci di giungere anche fino a voi. 14 Noi infatti non oltrepassiamo i nostri limiti, come se non fossimo giunti fino a voi; perché siamo realmente giunti fino a voi con il vangelo di Cristo. 15 Non ci vantiamo oltre misura di fatiche altrui, ma nutriamo speranza che, crescendo la vostra fede, saremo tenuti in maggior considerazione tra di voi nei limiti del campo di attività assegnatoci, 16 per poter evangelizzare anche i paesi che sono di là dal vostro senza vantarci, nel campo altrui, di cose già preparate. 17 Ma chi si vanta, si vanti nel Signore. 18 Perché non colui che si raccomanda da sé è approvato, ma colui che il Signore raccomanda" (2 Corinzi 10:12-18).
Il sistema metrico decimale misura le distanze sulla base del metro. In origine, il metro era stato definito come 1/40 000 000 del meridiano terrestre, ma nel 1983, a Parigi, è stato ridefinito come la distanza percorsa dalla luce nel vuoto in un intervallo di tempo pari a 1/299 792 458 di secondo. Misurare le distanze significa confrontarle, rapportarle con quella lunghezza: è il nostro criterio convenzionale per valutarle. Vi sono stati e vi sono altri criteri, ma questo è stato formalizzato nel sistema internazionale di unità di misura. Si tratta di un sistema sicuramente arbitrario e frutto di un accordo. Questo rende inaccettabile che qualcuno pretenda di misurare le distanze con criteri diversi di propria invenzione, soggettivi, personali, secondo "il proprio metro".
Con quale "metro", però, si può misurare, valutare, il comportamento umano? Secondo quale "scala di valori"? È lecito misurare moralmente e spiritualmente secondo i propri criteri soggettivi, misurare gli altri sulla base di quanto noi siamo, presumendo (vantando) la propria eccellenza? Dal senso comune questo sarebbe considerato arrogante. Oggi, però, i criteri morali e spirituali per valutare il comportamento umano si fondano prevalentemente sui valori che la società in cui viviamo concorda come più "accettabili" secondo una sorta di "principio democratico", criteri sanciti da leggi stabilite scritte e non scritte. Si può tracciare l'origine di questi criteri comuni a fonti diverse. Questo è il campo di studio dell'etica. Si tratta, in ogni caso, di criteri mutevoli, soggetti ad evoluzione. Tutto questo è accettabile? No, non secondo la concezione del mondo biblica cristiana, la quale stabilisce come i criteri morali e spirituali di giudizio del comportamento umano siano stati stabiliti in modo oggettivo e permanente da Dio nell'ambito della Sua legge rivelata.
"Pieni di sé", fra i cristiani di Corinto erano giunti dei missionari giudeo-cristiani che vantavano grandi cose e, disprezzando l'opera apostolica di Paolo, volevano accreditare sé stessi assumendo come criterio di giudizio, quelli rispetto ai quali misurarsi, canoni che loro stessi avevano stabilito, "la loro propria misura" (12). L'Apostolo risponde loro con tre contestazioni.
1. La prima contestazione era che questi missionari "mancano di intelligenza" (12), "non hanno alcun intendimento" (ND). Usavano sé stessi come misura per valutare sé stessi: non è ridicolo? Potevano così ritenersi soddisfatti e compiaciuti perché ...avevano raggiunto l'obiettivo! Tutto questo è davvero stupido, "troppo comodo"! È lo stesso atteggiamento di tanti oggi che si considerano "brave persone" e che "quindi" dicono di non aver bisogno del Salvatore Gesù Cristo. Sulla base di quali criteri? Quelli che essi stessi (o "il comune intendimento") ha stabilito! L'Apostolo, però, dice: Noi non osiamo collocare noi stessi su una nostra scala di valori e dire poi che siamo arrivati in cima! Dobbiamo metterci a confronto con il criterio stabilito da Dio ed allora vedremo la verità sul nostro stato effettivo! Benché Paolo considerava sicura la propria salvezza (essa, infatti, è esclusivamente opera della grazia di Dio), egli non si considerava spiritualmente "un arrivato" (la sua santificazione rimaneva imperfetta):"Non che io abbia già ottenuto tutto questo o sia già arrivato alla perfezione; ma proseguo il cammino per cercare di afferrare ciò per cui sono anche stato afferrato da Cristo Gesù. Fratelli, io non ritengo di averlo già afferrato" (Filippesi 3:12-13).
2. La seconda contestazione era che questi missionari avevano "superati i limiti" stabiliti il "campo di attività di cui Dio ci ha segnato i limiti" (13). Paolo si era sempre attenuto al campo di attività (di ministero) a lui affidato. Non l'aveva, infatti, stabilito lui, ma era stato concordato con gli apostoli che risiedevano a Gerusalemme: "...riconoscendo la grazia che mi era stata accordata, Giacomo, Cefa e Giovanni, che sono reputati colonne, diedero a me e a Barnaba la mano in segno di comunione perché andassimo noi agli stranieri, ed essi ai circoncisi" (Galati 2:9). Ad ogni apostolo era stato stato affidato un proprio raggio di azione, un proprio territorio. Corinto rientrava nel territorio assegnato a Paolo, ma quei missionari avevano "invaso il campo" che loro non competeva. Paolo aveva sempre avuto l'accortezza di "non costruire sul fondamento altrui" (Romani 9:20), inoltre egli era sempre stato disposto a collaborare con altri ministri cristiani, ciascuno secondo la propria vocazione (cfr. 1 Corinzi 3:5-9). Non così quelli che si erano imposti a Corinto. Il concetto stesso di peccato è quello di "trasgressione", andare oltre i limiti stabiliti da Dio, e di questo largamente si rende colpevole anche la nostra generazione.
3. La terza contestazione era che questi missionari si vantavano come se fosse propria di un'opera fatta da altri: "Non ci vantiamo oltre misura di fatiche altrui" (15). Paolo e i suoi collaboratori avevano faticato per portare e stabilire l'Evangelo a Corinto ed ora questi altri pretendevano di scalzarli e di gestire loro la comunità ritenendosi migliori e più qualificati! Paolo, inoltre, lavorava secondo una precisa "strategia" missionaria: "...per poter evangelizzare anche i paesi che sono di là dal vostro senza vantarci" (16). Con l'aiuto di Dio aveva fondato una comunità cristiana, la stava consolidando e da lì avrebbe allargato localmente la sfera d'influenza dell'Evangelo. A che titolo,ora, quei missionari si erano intromessi?
Paolo non si vantava di quanto bravo fosse stato... a realizzare quel che aveva conseguito. Era un semplice strumento nelle mani del Signore che, nella Sua grazia, Egli si avvaleva. L'unico "vanto" possibile era "nel Signore" (17), la riconoscenza dell'essere stato immeritatamente coinvolto dai successi del Signore ad allargare il Suo regno. il vanto di aver conosciuto il Signore che si era rivelato a Lui, secondo la citazione: "...ma chi si gloria si glori di questo: che ha intelligenza e conosce me, che sono il SIGNORE. Io pratico la bontà, il diritto e la giustizia sulla terra, perché di queste cose mi compiaccio», dice il SIGNORE" (Geremia 9:24).
Oggi anche nel campo delle chiese sembra spesso prevalere il "libero mercato" e la concorrenza dove un singolo ministro di Dio o comunità vanta, a diversi livelli, maggiore capacità, competenza, titoli, spiritualità o "livello accademico"... Questa concorrenza sembra prevalere anche fra coloro che dovrebbero essere d'accordo, in consonanza, nei principi della loro fede. L'arrogante individualismo è uno dei motivi della scarsa efficacia dell'opera cristiana nella nostra generazione.
Preghiera. Signore Iddio, ti chiedo perdono per quella che è spesso la mia presunzione di saperla più lunga o di poter far meglio di tanti miei fratelli e sorelle nella fede. Fa' sì che io esprima piuttosto fierezza nella Tua opera, nella Tua grazia, nel Tuo amore e sempre mi sorprenda di come Tu abbia raggiunto ed utilizzi una persona debole ed inadeguata così come io sono. Nel nome di Cristo. Amen.
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