giovedì 20 novembre 2014

I nuovi barbari

Vi sono ancora dei barbari nel XXI secolo? Per i Greci dell’antichità, erano barbari tutti coloro che non erano legati con loro da un legame di sangue. Quanto ai Romani, essi cercavano di contenere le orde barbariche ai confini del loro impero. La barbarie, poi, ha caratterizzato l’assenza civiltà e di raffinatezza negli usi e nei costumi di una popolazione.
Oggi, dato che non si cessa di pubblicare libri su questo argomento, sembra che la barbarie resti un problema d’attualità, anche se non si pone più nei termini d’un tempo, quando il barbaro era sempre “l’altro”, lo straniero, il non-civilizzato alla nostra maniera.  Il XX secolo ha chiaramente mostrato come persino in Europa, così fiera della propria civiltà, la barbarie sia lungi dall’essere stata sconfitta. Le guerre più recenti hanno mostrato ad nauseam che noi europei continuiamo ad essere capaci anche degli atti di crudeltà più degradanti. La barbarie è dunque da intendersi come qualcosa di radicato in noi, al cuore stesso della nostra civiltà, proprio quando la denunziamo negli altri?
Non è indifferente il fatto che i Romani facessero la distinzione fra due tipi di barbarie. La prima è quella a cui di solito si pensa: violenza sfrenata, crudeltà e lo scatenamento della guerra, la ferocia senza misura che distrugge e disperde. Si tratta di una barbarie “hard”, nordica, mascolina, eccitata dal furore e dalla brutalità. Più sorprendente, invece, il secondo tipo di barbarie che essi identificavano, dolce, “soft”, caratterizzata da una vita molle, senza fermezza né energia: è la barbarie della debolezza, orientale e femminile, che favorisce gli eccessi della sensualità in un mondo ridotto a delle apparenze e a delle illusioni.
Non è difficile rilevare come sia particolarmente rilevante questo punto di vista romano rispetto alle situazioni d’oggi. Queste due forme, evidentemente, sono opposte l’una all’altra come due poli che reciprocamente non si sopportino, ignorando che sia l’uno che l’altro non sono che la manifestazione dell’identica barbarie.
Vi è un punto in comune a questi due tipi di barbarie: l’idea del limite trasgredito, della frontiera oltrepassata. Possiamo pensare proprio all’esercito romano già evocato, consacrato alla difesa delle frontiere dell’impero, che segnavano il limite fra la civiltà e la barbarie. L’impero, però, con tutte le sue frontiere, è caduto.
I limiti sono indispensabili: senza limiti è impossibile definirsi, darsi un’identità, una consistenza. Un uomo che non abbia limiti interiori è un mostro – un barbaro. Meglio un limite trasgredito, che l’assenza di limiti, dato che senza limiti non c’è più la consapevolezza della trasgressione (“trasgressione”, etimologicamente, significa “passare dall’altra parte”. “Mediante la legge infatti vi è la conoscenza del peccato” (Ro. 3:20), ricorda Paolo.
L’educazione ci insegna, mediante la conoscenza dei limiti, a scoprire e ad esercitare le nostre risorse interiori: l’istruzione ci insegna a resistere alle sirene della barbarie. Rammentiamo ancora una volta il senso preciso di questo motto: “educare”, cioè, letteralmente, “condurre fuori” da qualcosa. Fuori da che, se non dal magma delle forze oscure dell’anima, verso qualcosa di più determinato? Per questo bene si dice che si sta educando un bambino. Anche l’addestramento degli animali intende un movimento verso l’alto.
Ecco il secondo punto in comune: il barbaro rifiuta ciò che eleva l’uomo al di sopra di sé stesso, che disprezza ogni cultura che lo spingerebbe ad andare oltre, verso qualcosa di superiore, oppure a collegarsi ad una trascendenza. Il barbaro è colui che non vuole che niente lo superi: egli brucia i libri e le opere d’arte. Quando gli si parla di cultura, allora tira fuori il suo revolver, perché la cultura lo indirizzerebbe verso l’eccellenza che egli dovrebbe sforzarsi di raggiungere. La cultura rifiuta di vedere l’uomo come un essere dedito esclusivamente alla soddisfazione, al giorno per giorno, dalle sue invidie e pulsioni.
Purtroppo, la cultura e l’educazione nel mondo contemporaneo, non sono al riparo della contaminazione barbara – dato che tutto può trasformarsi in barbarie quando perde il senso dei suoi limiti e la dimensione verticale. Le costruzioni che puntano al cielo, sia che si tratti dei templi dell’antichità, delle nostre cattedrali, e forse dei nostri grattacieli, manifestano negli uomini un desiderio di grandezza, il che non è sempre identificabile nell’orgoglio e nell’arroganza. Questa tensione verso l’alto segna la volontà di raddrizzarsi e di tenersi in piedi, fisicamente, ma anche spiritualmente. Quando l’uomo cerca di salire fino al cielo, come a Babele, egli segna il suo desiderio di ricongiungersi a qualcosa che lo trascenda, a Dio, e che così dia un senso all’avventura di vivere. E’ proprio questo rapporto a ciò che va oltre a costituire il metro della barbarie. “Il bene reale non può che venire dall’esterno, mai con il nostro sforzo” (Simone Weil).
(Le Barbare en nous, di F. F. Jobin, in Certitudes, 5-7/2000).

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